Elettroshock Stampa
Intervista al dottor Giorgio Antonucci, medico e psichiatra toscano che lavorò al fianco di Basaglia

"Stop alle costrizioni. Son ben altre le terapie"

"LA FOLLIA è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere".
Partendo da questo convincimento Franco Basaglia rivoluzionò l'universo delle malattie mentali: bandì l'usanza degli internati, eliminò le sbarre, consacrò il dialogo come via d'uscita dal disagio psichico. Il suo percorso cominciò a Gorizia dove, fin dal 1962, il promotore della legge 180 che in Italia ha imposto la chiusura dei manicomi, adottò metodi nuovi per curare i malati di mente. Al suo fianco, nel 1969, chiamò il dottor Giorgio Antonucci, medico e psicanalista toscano che un anno prima aveva lavorato a Cividale del Friuli, nel primo ospedale civile aperto come alternativa ai manicomi.

"A Gorizia - racconta Antonucci che ancora oggi, da Firenze dove vive, si adopera affinché i problemi della mente siano risolti con le 'buone maniere' - dicemmo basta alla violenza, all'elettroshock, alla cintura di forza, agli abusi, agli psicofarmaci e alla solitudine coatta a cui erano obbligati questi malati nel nostro Paese. Tentammo di far capire al mondo esterno che i 'matti' non esistono, e aprimmo le porte al dialogo con i pazienti e con i loro familiari".

Uno dopo l'altro li liberaste dalla condanna dell'oblio.

"Decretammo il passaggio da una situazione di assoluta esclusione del malato dalla vita quotidiana a un graduale reinserimento nella società. Dimostrammo, insomma, che i manicomi potevano essere superati".
Toglieste loro le catene dello stigma.
"Distruggemmo l'impostazione carceraria di questi ricoveri forzati, portammo i pazienti a ragionare. Ci rendemmo conto che se un individuo confessa di essere perseguitato dal Kgb, può volerci comunicare molte sue angosce".
Tormenti che potevano essere superati parlando.
"Certo non affrontati con l'elettroshock o con gli psicofarmaci. Il malato di mente è un individuo capace di capire e di decidere. Di stabilire se uscire o no dal suo male. Nelle strutture chiuse, invece, passava la vita a passeggiare, stordito dai farmaci neuroplegici. E ne era tristemente consapevole. Noi lo facemmo sentire una persona, non più un soggetto da studiare".
Poi arrivò la legge Basaglia.
"Sì, anche se non rispecchiò in pieno la volontà di Franco. Basta leggere i suoi scritti per rendersene conto. Basaglia non avrebbe mai condiviso il trattamento sanitario obbligatorio (Tso), né istituito servizi d'igiene mentale pubblici come quelli moderni".
Non fu quindi Basaglia a stimolare la riforma?
"Basaglia voleva riformare il sistema psichiatrico. In realtà la 180 fu voluta dal Parlamento per evitare il referendum sulla chiusura dei manicomi, chiesto dai radicali di Pannella. Ma questa legge, così com'è strutturata, non piaceva a Basaglia. Almeno non del tutto".
Però la legge è del '78 e Basaglia morì nell'80. Due anni di tempo per dire la sua ce li ha avuti.
"Basaglia si rese conto che qualcosa era comunque cambiato nel modo di curare i malati, quindi la contestò ma alla fine l'accettò. Era lo stesso un passo in avanti".
La legge fu una rivoluzione culturale e medica, basata sull'umanizzazione del sistema psichiatrico. Come cambierebbe oggi la 180?
"Al tempo la 180 fu una legge di rottura. Della Basaglia oggi abolirei i Tso, dando più spazio al rispetto della libertà personale".
Rimessi in libertà i malati, il peso della loro gestione è ricaduto però sulle famiglie. Ciò, nonostante alcune malattie siano pericolose anche per la società.
"Ognuno di noi può essere pericoloso. Le malattie mentali vanno affrontate dunque senza paura, anche se mancano specialisti in grado di curarle senza psicofarmaci ed elettroshock. Certo, ridurre il malato a una larva è più facile che aiutarlo a guarire".  
E se una famiglia vuol proteggersi dalla paura dell'imprevedibile?
"L'antagonismo tra la famiglia e il malato di mente c'è solo se la prima vuol disfarsi del secondo. Altrimenti collabora e può riportarlo alla vita normale".
Che cosa si potrebbe fare, quindi, per aiutare i malati e le loro famiglie a uscire da questo dramma esistenziale?
"Università, politica e istituzioni dovrebbero darsi da fare per creare una cultura più umana nella cura delle malattie psichiche. Altro che elettroschock... ".