«Ecco come ho abortito tra medici obiettori, abbandonata a me stessa» Stampa

Confinata in una sala parto sporca a sguarnita al Secondo Policlinico di Napoli, ignorata per ore da medici e infermieri, Laura sa che deve abortire velocemente altrimenti entrerà di turno un ginecologo obiettore che potrebbe interrompere il travaglio. Subirà, senza saperlo, la dilatazione digitale dell'utero da un medico anti-abortista che non vuole informarla sulle sue condizioni. E quando chiederà spiegazioni, ecco la risposta: «Signora, cosa vuole? Lei ha scelto il male peggiore». Il feto sopravvive e, come prevede la legge, viene rianimato. Fino al suo decesso, a ventuno settimane.

«Alle ore 13.15 circa di venerdì 6 giugno 2008, mi ritrovo in attesa del travaglio, su di uno scomodissimo, perché alto ed in discesa, lettino da parto, sul quale neanche il lenzuolo riesce a non scivolare giù periodicamente. Poiché inoltre le porte delle sale travaglio e parto sono costantemente aperte sul corridoio, forse per rispetto della privacy delle altre degenti, non è mi è concesso di farvi entrare né mio marito né mia madre (...). Ogni tre ore mi viene inserita una candeletta, dopo di che, per evitare che fuoriesca, per le successive due ore rimango stesa aspettando che il travaglio si avvii. Per questo motivo mi reco in bagno ad urinare appena prima dell'inserimento successivo.Trascorro così tutto il pomeriggio e la sera, un po' a letto lottando con le zanzare, un po' ascoltando inevitabilmente un aborto spontaneo che si consuma alla sala da parto a fianco, un po' andando a trovare mio marito che aspetta notizie nel gelido corridoio (...).

Quando il direttore del centro delle IVG mi saluta augurandomi di non ritrovarmi ancora lì il successivo lunedì mattina, gli chiedo cosa posso fare per eventualmente avere assistenza dai medici e paramedici di quel reparto; lui allora mi accosta un macchinario con collegato un campanello che però non funziona: dovrò gridare a voce, per qualsiasi cosa avrò bisogno….

A notte inoltrata mio marito cede il posto ad una mia cugina che la mattina dopo dovrà comunque andare al lavoro. La mia parente riesce ad introdursi nell'ospedale di notte perché accompagnata in auto da suo marito che è medico. L'atmosfera è cambiata; le sale travaglio si sono svuotate ed ora non restano che gruppi di tirocinanti che chiacchierano fra loro; sembra di stare ad una festa: aitanti giovanotti seduti sulle barelle, ragazze accomodate ai tavoli nel corridoio sul quale affacciano da una sale travaglio e sale parto; le luci sono tutte accese. Chiedo ad una tirocinante di passaggio se può tenermi acceso solo qualche faretto nella sala parto dove molto scomodamente ancora mi trovo. Più tardi, dopo che l'ultima candeletta è stata assorbita, finalmente una ginecologa mi concede di farmi salire in camera con mia cugina, dove dopo poco comincerò il travaglio».

«Le contrazioni vanno e vengono ma purtroppo la dilatazione non si avvia: suono il campanello per avvertire il ginecologo - tirocinante - di turno, che dopo la visita mi dice di fare caso se ci sono perdite di sangue; significherebbe che alcuni capillari si sono rotti a causa dell'inizio della dilatazione del collo dell'utero. Parliamo anche d'altro: vengo a sapere che lui non è obiettore, ma poiché nel fine settimana in ospedale non vi sarà nessun ginecologo strutturato non obiettore, se entro sabato notte non abortisco, domenica dovrò rimanere in ospedale senza che si possa andare avanti con la stimolazione tramite candelette. Come si può permettere umanamente tutto ciò? (...)

Intanto l'infermiera gentile ed un'ostetrica lungimirante litigano circa il mio cambio di letto: l'ostetrica sgrida l'infermiera perché quando espellerò il feto sporcherò le lenzuola ed il lettino sottostante, mentre invece se fossi rimasta sul letto da parto lo avrei sporcato lo stesso, ma essendo di pelle era fatto apposta per pulirsi più agevolmente. Probabilmente l'ostetrica in questione non può rendersene conto, ma sono indignata; io che ho dovuto fare il travaglio su di un lenzuolo sporco di sangue di un'altra, non ho neanche il diritto di sporcare un letto con il mio di sangue (...).

Poco tempo dopo entra un ginecologo strutturato: ha i capelli bianchi ed una montatura d'occhiali nera; a lui chiedo se posso avere un cesareo o l'anestesia epidurale. "Non facciamo l'epidurale in questo ospedale" è la risposta. Allora gli chiedo di essere visitata. Lui esegue e visto che con la dilatazione siamo ancora a zero, mi pratica la dolorosa dilatazione digitale, ma per rendermene conto ci metterò una settimana. Sul momento, dato che è l'unica volta che ricevo una visita così dolorosa, mi viene da pensare che l'abbia fatto apposta a farmi male visto che, essendo sabato, il medico era sicuramente obiettore. Con questo non voglio dire che gli obiettori maltrattino le donne ricoverate per abortire, almeno non fisicamente, solo che in quel frangente, digiuna ed insonne da più di ventiquattro ore, in mezzo alla più totale indifferenza nei miei riguardi, davvero non sapevo più cosa pensare.

Inoltre dopo la presunta violenza fisica, arriva quella vera, psicologica; al termine della dilatazione digitale il medico mi annuncia che siamo a due centimetri di dilatazione. A questo punto, ricordandomi di quello che mi aveva detto l'anestesista, chiedendo se sono pronta per abortire, mi sento rispondere che l'aborto non è come un parto: i centimetri di dilatazione non significano nulla in quanto debbo essere io ad espellere il feto fuori dal mio corpo. Questo è ovvio, ma sta al Questo è ovvio, ma sta al m,edico o all'ostetrica avvertire la paziente quando è il momento di farlo (...).

Il lunedì successivo mio padre mi riaccompagna per dichiarare adottabile il mio prodotto abortivo. Ho espulso un feto vivo ed all'ospedale si aspettano che lo riconosca prima o dopo il suo inevitabile decesso. Mio padre tuttavia teme che nel momento in cui il feto ci impieghi più di dieci giorni a morire, io possa essere accusata di abbandono di minore (...).

Ricordo come il ginecologo non obiettore per rassicurare mio padre diceva cose tipo " non si preoccupi, non sopravvivrà ancora a lungo"   mentre io davvero non ce la facevo più ad augurarmi che mia figlia morisse presto anche se ciò avrebbe significato per lei la fine delle sue sofferenze, se non proprio fisiche comunque psicologiche. Pensa un feto? Credo di sì, dal momento che si sposta se ad un tratto si ritrova stretto per la forza di gravità fra una parete dell'utero e la placenta. Ma forse non è proprio un pensiero il suo, agisce d'istinto, ma quando poi si ritrova fuori dall'acqua, lontano, distante da tutto quello che per lui, lei anzi, era conosciuto, solito, scontato, fin dall'inizio della sua vita in utero, se non altro si ritrova spaesato a soffrire di uno stato che non conosce, senza niente di noto che possa rassicurare il suo istinto».

Laura Fiore è animatrice del blog http://www.abortoterapeuticoenon.blogspot.com

04/04/2010