Ospedalizzazione o momenti di mortificazione? Stampa

Il racconto di Nicola Valentino tratta della mala sanità che emerge da una serie di ricerche che hanno quale filo conduttore biopolitica, cioè verificando alcune ipotesi di come le istituzioni politiche abbiano il controllo sui corpi delle persone, affrontando i dispositivi mortificanti dell'ospedalizzazione.

 

«”Il signore accanto a me si è sporcato di feci. Lo venga a pulire”.

Sì, ora vengo”.

Passa mezz’ora e non viene.

Lo vado a cercare e gli ripeto la richiesta.

Se aspetta altri cinque minuti viene il mio collega che monta per il turno di notte”.

Ma il signore sta nelle feci da tempo, sbraita, la stanza puzza e dobbiamo dormire”.

E’ alle strette. Viene a fare a malincuore la pulizia.


Quello che, qui sopra, è messo alle strette e deve intervenire a malincuore a fare pulizia è l’operatore sanitario, l’infermiere di turno: ha rimandato e rimandato una semplice operazione affinché se lo “sciroppasse” il collega del turno successivo. Ma davanti alle continue lamentele degli altri pazienti in corsia e dei parenti dei malati, ha dovuto per forza intervenire.

Quella descritta sopra è una scena di “ordinaria amministrazione” che avviene sotto gli occhi di molte persone, in alcuni ospedali come viene spiegato in “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione”, un interessante libro di denuncia curato da Nicola Valentino (Sensibili alle Foglie 2008) «con l’intento di esplorare – si legge nell’introduzione al volume – i dispositivi totalizzanti del’istituzione ospedaliera; quei dispositivi relazionali deumanizzanti, caratteristici delle istituzioni totali (carceri, ospedali psichiatrici, manicomi giudiziari, campi di concentramento, istituzioni terminali per anziani) che possono essere attivi anche nell’ospedalizzazione della persona malata e risultare fonte del malessere, umano e professionale, per gli stessi operatori che li applicano».


Sentiamo però dalla viva voce di un paziente in attesa nella struttura di soccorso di un ospedale la sua vicenda:

«Gli era stato dato il cartellino giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita, segnalato invece dal cartellino rosso. Per questo motivo un operaio ha atteso un’ora e più nel pronto soccorso, con la falange di un dito amputata, prima di abbandonare lì il pezzo di dito e cambiare ospedale. “Mi hanno lasciato per più di un’ora con dolori lancinanti – ha dichiarato – se osavo chiedere spiegazioni mi trattavano male”».


Per chi è invece ricoverato la giornata del paziente è scandita in tutto e per tutto sempre da lunghe attese: «Aspetti il prelievo, la colazione, la pulizia della stanza e dei bagni, la visita medica, che è l’appuntamento più importante, il pranzo con la visita dei familiari, le visite specialistiche, la cena delle ore sei, e la visita pomeridiana dei familiari, infine l’ora buona per addormentarti. Questo impegno costante nell’attendere non mi consente di fare nulla. Mi ero portato un libro ma non sono riuscito a leggere nemmeno una pagina. Neppure il quotidiano riesco a leggere con la dovuta attenzione. La mente risulta sempre concentrata nell’attesa di un evento successivo. Anche un mio amico, che è stato ricoverato 20 giorni in ospedale, ha vissuto la stessa esperienza».


Il tempo dell’attesa, dicevamo all’inizio, in una struttura ospedaliera per un paziente è psicologicamente snervante. Perché quel “si metta lì e aspetti” detto da un operatore sanitario (infermiere o medico) sembra un’attesa indefinita, angosciante. Soprattutto se si attendono gli esisti di una visita, di un esame importante che decreta la vita o la morte. Oppure la nascita di un figlio e si sente la propria moglie urlare dietro una porta e non si è deciso di assisterla durante il parto.


Il tempo in ospedale è una continua attesa senza che nessuno dia delle spiegazioni. Allora l’attesa diventa anche smarrimento, tensione e paura.

 


A cura di Davide Pelanda