Vivere la malattia Stampa
vissuto e riflessioni

Modi di morire  

Un libro intenso di Iona Heath “Modi di morire” consigliato dal Manifesto, mi induce a scrivere di un argomento sul quale io pure da anni vado riflettendo. Iona Heath è una dottoressa che è stata accanto a molti pazienti nel momento del decesso. E ha elaborato il distacco cercando di affrontarlo con l’aiuto che nei secoli ci hanno fornito i grandi letterati. La morte serena deve essere un traguardo ambito. Sono anni che rifletto sulla morte. Sembrandomi, in alcune situazioni, di averla conosciuta e vinta. Di averne conosciuto cioè l’aspetto psicologico. La mia vittoria sulla morte è semplicemente dovuta al fatto che non sono vecchio.

So come arriva, a notte, a volte annunciandosi,   a volte cogliendoti d’improvviso. Un vecchio finisce col capire che ad essa si deve abbandonare perché la fatica del combattimento è aspra. In una mia opera in endecasillabi, dopo una serata e una notte soggettivamente molto stressanti, avevo scritto questi versi:
“Fra ‘ncomprensioni, perché delicata/ è situazione nova, vita cala/e si rialza: cervello programma/tene d’uccidere se stesso, mala/sorte e’ vede, ma la carne lo ‘nfiamma/per costringerlo a far desistenza/ da proposito ‘nsensato cu’ mamma/si ribella partorendo: presenza/ di umano salva omo, certezza/di futuro è sua previdenza.”

Noi vediamo la morte come un dramma, ma la morte serena fa parte del normale corso della vita, ne è il corollario, forse addirittura la dimostrazione della vita. La morte è naturale. Può essere violenta e quindi arrivare all’improvviso (in fondo il leone assale anche l’uomo che non prende precauzioni) ma se parliamo di morte naturale, essa, a mio parere deve essere vissuta con serenità e per questo ci dobbiamo preparare.

La società occidentale non ci aiuta.

Nella parte finale del libro di Iona Heath è riportato un brano di John Berger, dove si narra di un novantacinquenne che, pur molto acciaccato, vive secondo sue usanze e abitudini in una fattoria, attorniato dai figli.
Par di capire che la vita del vecchio, cammina addirittura piegato a 90 gradi, trascorra comunque serena in attesa dell’evento.
Una sera i figli lo trovano che respira a fatica. Come hanno imparato dalla nostra società, si impegnano a far si che riceva un soccorso ‘adeguato’ in una struttura ospedaliera.
Semplicemente il vecchio muore in ospedale, attorniato da medici sconosciuti che ben poco possono fare. Una volta la gente ‘si arrangiava’ da se in queste situazioni, poi, un po’ per volta, ma inesorabilmente, tutto è stato delegato ad una struttura medica sempre più speciali stica. La conseguenza ultima è una sottrazione di serenità al morente. ‘Che cosa è effettivamente una buona morte?’ si chiede Iona Heath all’inizio del libro. Aggiungendo poi che ‘la sfida tecnologica a prolungare la vita ha gradualmente avuto la meglio sulla vita vissuta. L’arroganza della medicina scientifica alimenta crescenti aspettative pubbliche di perfetta salute e tenace longevità e questi processi sono sfruttati con avidità da giornalisti e uomini politici e, soprattutto, dall’industria farmaceutica.’ Socrate accettò la morte dalla società per desiderio di rimanere nella società assecondando il proprio pensiero.
 
La Chiesa , a mio parere, ha avuto un atteggiamento meno limpido nei secoli perché ha finito con l’installarsi territorialmente nella città che è responsabile in ultima analisi della morte umana del più grande personaggio della nostra storia finendo con l’accettare le ‘inesorabili ragioni’ del potere che prescinde dalla ragione. Anche i grandi scrittori a volte ci hanno fuorviati. Ho visto recentemente il bel film di Giuliano Montaldo sulla vita di Dostoevskij. Il poveruomo, che s’era fatto anche dieci anni di Siberia per volontà degli zar, risulta dal film essere ‘oggetto di gioco’ della polizia zarista che ne utilizza le capacità a fini ‘predittivi’ di potere. Rifletto sul fatto che Dostoevskij ha intitolato una delle sue opere più grandi ‘Delitto e castigo’ instillando in tutti noi la conseguenzialità del castigo di fronte al delitto, laddove il delitto, a mio parere, ha necessarie conseguenze di castigo sociale, ma il castigo può essere vissuto soggettivamente come un bene rispetto a quanto commesso. Al pari, la morte non è il castigo della vita, ne è la conseguenza che dobbiamo rendere quanto più possibile qualitativamente accettabile.

Scrive Iona Heath: ‘Ho affermato che l’arroganza e l’ambizione della scienza biomedica è in larga parte responsabile del pericoloso e disastroso diniego della morte imperante nella società contemporanea. Tuttavia, visitando il nuovo edificio progettato da Daniel Libeskind per il Museo Ebraico di Berlino e sofferman-domi nell’oscurità fredda e   cava della Torre dell’Olocausto, ho cominciato a domandarmi se la turpitudine genocida di tutta la morte che ha contrassegnato il secolo che si è appena concluso non sia, almeno in parte, all’origine della nostra avversione, se le sue cause non possano essere culturali oltre che scientifiche.” Si è molto spesso dimenticato, nei secoli, il connotato positivo del termine ‘potere’. Ce l’hanno fatto dimenticare. Potere è anche un verbo che si coniuga in questo modo: ‘io posso, tu puoi, egli può, noi possiamo, voi potete, essi possono’. Hanno fatto si che noi lo accostassimo soltanto a ‘egli può, essi possono’ e gli hanno fatto perdere gran parte della sua valenza. Perché se ‘egli può’ violare le regole umane e ‘io non posso’ punirlo secondo regole umane, facciamo un salto indietro di migliaia di anni.
 
Miliardi, forse, perché stando ad alcuni scienziati sembra che attualmente noi tutti siamo come la rana nell’acqua tiepida. Sapete che quando la temperatura dell’acqua si riscalda, la rana, irragionevolmente resta nell’acqua e aspetta che arrivi una morte atroce. Scrive la Heath : ‘Pensare che per chi muore sia preferibile una morte improvvisa significa non dare alcun valore alle opportunità offerte da una malattia terminale, tra cui la possibilità di lasciare in ordine le proprie cose, contribuire a pianificare il proprio funerale, condividere e rivivere i ricordi, dire addio, perdonare ed essere perdonati e dire le cose che andrebbero dette’. Riporta poi l’esperienza di una sua amica morente che parla ‘della possibilità del piacere nelle cose più impercettibili, persino in un pensiero passeggero.’ Un altro brano illuminante del libro è questo: ‘Prima dell’Illuminismo, la felicità era essenzialmente una prospettiva e si viveva nella speranza della salvezza e di un futuro gioioso. Adesso la felicità è quasi del tutto retrospettiva e la morte proporzionalmente più spaventosa. La scomparsa dell’attesa di una felicità a venire si è accompagnata a una scomparsa della connessione e della solidarietà tra i vivi e i morti.’