Dentro la casa del malato Stampa

“La disciplina della palliazione è per definizione una pratica sanitaria a bassa tecnologia ed alto impatto emotivo ed eroga cure che prevedono un'elevata umanizzazione del rapporto medico-paziente”

malato terminale

Voglio prendere spunto da un dato emerso nel corso di uno studio condotto nella nostra città fra i pazienti oncologici terminali assistiti a domicilio a cui è stato sottoposto un questionario, il medesimo usato per uno studio Europeo i cui risultati sono stati presentati nel giugno 2007 al Congresso Internazionale dell'European Association of Palliative Care di Cure svoltosi a Budapest.

Al questionario avevamo aggiunto un'ultima domanda che non era presente in quello dello studio menzionato e cioè “cosa vorreste avere in più da questa assistenza domiciliare?”

Or bene,più del 10% dei pazienti intervistati (percentuale non trascurabile!) ha chiesto “più amore”, “maggior presenza del personale medico ed infermieristico” nella propria casa; qualcuno ha perfino detto “vorrei una persona tutta per me, soltanto per me” “vorrei essere più ascoltato”

VORREI ESSERE PIU' ASCOLTATO: questa richiesta in modo particolare mi ha fatto riflettere una volta di più, sull'importanza della narrazione in medicina. Dalla narrazione emergono particolari legati ad una patologia; dalla minuziosa descrizione di un disturbo, inscritto in un contesto socio-ambientale, e dal come questo disturbo è vissuto si delinea il quadro della malattia, della “sua”malattia.

Il paziente descrive il suo malore ed il suo disaggio miscelandoli ad eventi della propria vita ed ha un costante bisogno di parlarne (e mi viene in mente Francesca che tutte le volte che sto per lasciare la sua casa, dopo aver trascorso una buona mezz'ora a chiacchierare con lei, tenendole la mano, mi chiede con voce delusa: “te ne vai?).

Questi pazienti hanno bisogno di raccontarci continuamente i propri disturbi nelle loro variazioni quotidiane, si aggrappano al racconto, esorcizzano col raccontola malattia; hanno bisogno di raccontarci i momenti della loro giornata, i cambiamenti a cui la malattia li ha costretti.

E' vero che un paziente oncologico non è un paziente da Terapia Intensiva, ma da medicina critica, si! Ti affidano il loro corpo come se non gli appartenesse più e ti eleggono arbitro della propria salute ed accettano con serenità terapie e manipolazioni, collaborando con te e si sottopongono a terapie endovenose, paracentesi e quant'altro...tutte cose che normalmente non sono più concepibili fuori dalle mura ospedaliere.

Entrando nelle loro case scopri una dimensione diversa, potenzialità inimmaginabili. Qui ti ritrovi veramente a curare il malato insieme ai suoi familiari poiché sono loro ad assisterlo tutto il giorno. Spesso sanno meglio di te quali sono le necessità di quel paziente in un determinato momento e si ha maggior necessità di spiegar loro una terapia impegnativa, per esempio quella con oppioidi, visto che saranno loro a somministrarla.

I caregivers imparano a gestire i sintomi, gli orari della terapia, i presìdi sanitari (cateteri endovenosi, cateteri vescicali, cannule tracheostomiche edaltro) e sono molto precisi.

Non è affatto vero che il sapere che si tratta di malati incurabili renda meno gravoso per il medico il “dolore” per quella morte. Vi è un aspetto molto delicato e di difficile gestione nell'accompagnare una persona, uomo, non paziente, verso la fine soprattutto quando egli è perfettamente consapevole e ti chiede (a me è successo molte volte) di dormire per non assistere alla propria fine o peggio ancora ti chiede “raccontami cosa succederà adesso e quanto durerà e come sarà...”

Chissà perché i pazienti solamente all'inizio ti chiamano dottore, poi hanno la tendenza a darti del tu ed incredibilmente ti senti a tuo agio a chiamarli per nome.

Quello delle cure palliative e dell'assistenza in Hospice o sul territorio è argomento notissimo ed affrontato da molti anni sia sotto il profilo scientifico che organizzativo (è proprio di questi giorni la notizia che il nostro paese si sta orientando per dare più spazio all'assistenza sul territorio e ridurre i ricoveri impropri), si parla invece poco della realtà dentro la case dei pazienti, dei compiti, talvolta estremamente gravosi, che i familiari devono affrontare trovandosi all'improvviso a ricoprire un ruolo al quale nessuno è preparato. Ed in più devono assistere al degrado quotidiano, fisico e mentale della persona cara, talvolta in tempi molto brevi e vi è grande difficoltà ad accettare che all'improvviso, chissà perché, questa terribile ed inarrestabile malattia lo stia rapidamente sottraendo alla sua vita ed ai suoi affetti.

Faccio il rianimatore dal 1979 e la mia vita lavorativa si è praticamente dipanata fra i letti della Terapia Intensiva. Erano loro, i malati a venire in casa nostra, la Rianimazione. Ed anche i familiari venivano da estranei, da “non addetti ai lavori”...Ma entrare nelle case dei malati non è come vederli in ospedale. I familiari nel loro ambiente domestico non sono come i familiari che vengono in Rianimazione a parlare col medico di guardia.

Dopo un po' di tempo che frequenti la loro casa, quando vengono ad aprirti la porta, ti abbracciano come si fa con un vecchio amico o una persona di famiglia, non col professionista che viene a curare. Non ricordo che qualcuno dei familiari venuti in Rianimazione abbia mai abbracciato il medico di guardia!

In tutte le case, spesso nei salotti, qualche volta nelle camere da letto, la gente tiene in bella vista nelle cornici foto di momenti che sono stati importanti:matrimoni, compleanni, feste in famiglia o con amici, anniversari. Spesso queste foto risalgono a poco tempo prima e mi viene in mente quante volte mi sono soffermata a guardarle e non riuscire a credere che il paziente che sto curando in quel momento sia la stessa persona ripresa in quella foto fatta l'anno scorso a quella festa!

Ma vi è un altro aspetto, talvolta più difficile da affrontare, quando il vero paziente è il family caregivers. Colui che rimarrà solo, che dovrà affrontare il vuoto, che è sostenuto, in questo momento, dalla grande volontà di fare, dal non avere un attimo di tempo per pensare preso com'è dalla cura del proprio familiare.

“When one is sick...two need help” è il motto della Well Spouse Fundation, networknazionale americano di familiari di malati cronici.

L'Osservatorio Italiano di Cure Palliative (OICP) ha promosso nel 2004 un interessante studio multicentrico intitolato “La Famiglia e il Malato Terminale” con particolare riferimento alle problematiche dei caregivers. Da questo studio sono emersi dati che fanno riflettere e spianano la strada per prendere in considerazione realtà alle quali forse fino ad oggi non eravamo abituati a pensare.

L'assistenza è quasi sempre svolta da donne, mogli, figlie, sorelle; questa pratica le impegna quasi tutta la giornata, comporta cambiamenti di vita e molto spesso compromette la loro salute per comparsa di ansia, disturbi del sonno, stanchezza cronica, dolori muscolo-scheletrici, ipertensione arteriosa. Spesso i caregivers ricorrono all'assistenza di uno psicologo, sono tristi, sono oppressi dalla paura e dal senso di impotenza. Molti di loro sono stati costretti a lasciare il lavoro per occuparsi del familiare malato con ovvie ripercussioni economiche e frustrazioni; molte donne trascurano i figli piccini o comunque la famiglia per occuparsi del malato e questo crea rimorsi e  senso di inadeguatezza.

Una buona percentuale di essi, parla però di “arricchimento interiore”, sostiene cioè che pur nel clima di dolore un'esperienza così devastante ha consolidato il rapporto affettivo col malato e li ha aiutati a comprendere valori di vita sottovalutati fino a quel momento...

Anche per noi che entriamo nelle loro case e siamo testimoni di queste sofferenze e di queste emozioni è così? Anche per noi esiste la possibilità di arricchimento interiore? Cosa ci dà questo rapporto così singolare!?

La risposta non è immediata e certamente sarà diversa per ogni persona e per ogni persona in relazione al rapporto con un determinato paziente. Ma te li porti a casa quegli sguardi, quelle domande che esprimono speranza. Gli odori: l'odore di borotalco quando vai presto al mattino subito dopo la toilette del paziente, l'odore stantio di una casa vecchia, gli odori di cucina che sono testimonianza di abitudini precise. Un'infinità di particolari che disegnano il loro mondo, quel mondo dentro il quale adesso tu sei entrato in punta di piedi divenendo di colpo punto di riferimento, speranza, presenza attesa, col tuo carico di emotività, di angoscia, di speranza che anche questo dolore ti arricchisca.

Approfondimenti su www.timeoutintensiva.it