Nella giornata delle vittime dell'asbesto, la prima questione da affrontare è quella di estendere il divieto d'uso di questo killer in tutto il pianeta. Obbiettivo ancora lontano ed estraneo all'agenda politica istituzionale.
Secondo l'OIL (ufficio internazionale del lavoro) nel mondo, ogni anno, muoiono 100.000 lavoratori per patologie asbestocorrelate; la stima appare non solo approssimata per difetto ma anche limitata agli effetti delle esposizioni occupazionali ed esclude le conseguenze delle esposizioni cosiddette paralavorative, domestiche ed ambientali. Questi dati danno la dimensione dell'entità della strage della questione amianto: uno dei più grandi crimini di pace del XX° secolo. La stima italiana è di circa 4.000 morti all'anno occupazionali, limitatamente al polmone ed ai tessuti mesoteliali (pleure, peritoneo, ecc.); a questa stima epidemiologica fa riscontro un numero estremamente più basso di casi sia per quel che riguarda i notificati all'Inail che i riconosciuti da questo istituto. In Italia molte ancora le questioni aperte: bonifiche dei siti dimessi, bonifiche delle coperture in cemento-amianto (nel tempo si stima essere astati collocati da 1,5 a 2,5 miliardi di metri quadrati di coperture), la chiusura delle cave di ofioliti (pietre verdi) che sono ancora incredibilmente aperte (nell'appennino nord occidentale, in Calabria, ecc.), la bonifica delle reti acquedottistiche (solo a Bologna circa 1650 km. di tubazioni in c/a per l'acqua "potabile"). I rischi di inquinamento devono essere peraltro studiati con metodi meno grossolani di quelli oggi utilizzati integrando le rilevazioni ambientali con la ricerca delle fibre ultracorte e di quelle ultrafini oltre alle fibre cosiddette "regolamentate". Questo tema è stato oggetto di polemiche e di strumentalizzazioni ma un sereno confronto in sede scientifica potrebbe evitare di "buttare il bambino con l'acqua sporca". Per la salute umana: occorre estendere a tutto il paese l'anagrafe degli ex-esposti sul modello già adottato dalla regione Friuli Venezia Giulia; occorre monitorare con mezzi non invasivi lo stato di salute degli esposti ed occorre riconoscere sul piano risarcitorio e penale i danni subiti non limitandosi agli organi ed apparati bersaglio più noti ma estendendo i riconoscimenti delle patologie asbestocorrelate anche, quanto meno, ai tumori gastroenterici, alla laringe, alla vescica e al rene, oltre a studiare altri nessi eziologici ed epidemiologici che appaiono meno nitidi di quelli appena citati. I risarcimenti che oggi si riesce ad ottenere (sul piano penale, civile ed assicurativo) rappresentano solo la punta dell'iceberg né la discrepanza dei misconoscimenti può essere colmata dall'esiguo e misero fondo di solidarietà per le vittime istituito dall'ultima legge finanziaria, affidato, peraltro, alla gestione dell'Inail. Qui, a nostro avviso è un elemento cruciale: togliere all'Inail le competenze in materia di riconoscimento della esposizione ad amianto ed in materia di riconoscimento della eziologia professionale della malattie. Fuori da questa ipotesi le lamentazioni continueranno all'infinito senza via d'uscita. Ancora è necessario rimettere mano alla legge 257/92 per assicurare le maggiorazioni pensionistiche a chi non le ha avute per i limiti previsti dalla normativa (pensiamo a chi è stato esposto "solo" nove anni o è andato in pensione prima del 1992!). Le risorse necessarie per le bonifiche e per i risarcimenti sono enormi e assumono dimensioni da "danni di guerra". Non lo si vuol capire. Allora l'unica strada possibile è: avviare una azione sociale diffusa di rivalsa nei confronti dei colpevoli (a livello economico, sociale ed istituzionale) a cominciare da quei governi e da quelle imprese che ancor oggi a livello mondiale lucrano su una merce di morte come l'amianto. |