Papilloma virus, quel vaccino non è sicuro. E ci sono altre priorità L'economico e vecchio Pap test può ridurre l'incidenza del tumore al 90 %
Anche se i tempi d'attesa per la diagnostica fossero dimezzati, se non ci fossero più letti nei corridoi degli ospedali e se gli operatori sanitari non fossero costretti a turni massacranti, una campagna di vaccinazione su larga scala contro il papilloma virus dovrebbe essere oggetto di attenta riflessione. Prima di tutto perché solo alcune delle molte famiglie del virus (Hpv) provocano il cancro all'utero e poi perché classica prevenzione è invece efficacissima, come si è visto sui grandi numeri. Peccato che la stagione della prevenzione sia in declino proprio per quelle difficoltà finanziarie che invece, chissà perché, le grandi campagne di vaccinazione non incontrano. Insomma, da profani ci si chiede come sia stato possibile spendere senza esitazione una montagna di soldi per arginare epidemie fasulle - vedi la mucca pazza, la Sars e l'aviaria - e per lanciare campagne di vaccinazione su larga scala e poi piangere sempre miseria quando si tratta di gestire l'ordinaria amministrazione. La campagna per la vaccinazione delle bambine italiane contro l'Hpv - un virus che nella maggioranza dei casi non crea problemi ed è quasi asintomatico - completa di (costosi) spot e trasmissioni ad hoc, ricalca quanto avvenuto negli Stati Uniti, con la differenza che dalle nostre parti le voci dissonanti sono molto più flebili.
Il papilloma virus è un'agente virale molto comune che si trasmette attraverso i rapporti sessuali e s'insedia sull'epitelio della cervice dell'utero. Da almeno vent'anni si sa che può dare luogo a lesioni precancerose che, in seguito, possono sfociare nel tumore vero e proprio. In linea di massima questo tipo di cancro, non particolarmente letale né aggressivo, può essere tenuto sotto controllo mediante la prevenzione: il buon vecchio Pap test accompagnato da tecniche di analisi del Dna (del virus) che servono a individuare se si tratta di uno dei due ceppi davvero pericolosi, nel qual caso si procede con il bisturi ben prima che si manifesti qualche problema. Grazie alla prevenzione e al test del Dna, il cancro alla cervice è decisamente in calo nei paesi sviluppati, dove i sistemi sanitari sono in grado di fornire questo servizio alla popolazione. Negli ultimi 50 anni, solo con il Pap test, gli Usa hanno abbassato la mortalità per questo tipo di tumore dell'80 % e la sua incidenza ormai non supera lo 0,7 % di tutti i cancri diagnosticati. Ci sarebbero, insomma, ben altre priorità, ma l'occasione era troppo ghiotta per una compagnia come la Merck che vede sul punto di scadere alcuni importanti brevetti e che è nel pieno della bufera legale per il Vioxx, analgesico con lo spiacevole effetto collaterale di provocare l'infarto. Ecco allora l'idea del vaccino contro il papillomavirus, costo 360 dollari per tre iniezioni: se si riesce a spaventare adeguatamente un numero abbastanza ampio di famiglie e di amministratori pubblici, c'è da farci una montagna di soldi. In Usa la campagna per il lancio del vaccino è stata dunque condotta senza esclusione di colpi e ora approda in Italia, dove sembra avviata sullo stesso stile. Il problema è che non è detto che il vaccino funzioni né, tanto meno, che sia innocuo per le bambine in età prepuberale, con il corpo in procinto di attraversare pesanti trasformazioni. La Food and Drugs Administration o Fda, l'organo di controllo statunitense, inspiegabilmente non ha chiesto ai propri esperti di fare maggiore chiarezza su questo punto. I test clinici però non sono incoraggianti: su 8.817 donne cui è stato somministrato il Gardasil, hanno sviluppato lesioni precancerose in 361, ovvero appena il 14 per cento in meno del gruppo di controllo a cui era stata data solo acqua fresca. Scott Emerson, professore di biostatistica all'Università di Washington ed ex consulente della Fda, non è convinto che il vaccino valga i miliardi di dollari che verranno spesi nei prossimi anni: "Credo che effettivamente il Gardasil protegga contro i ceppi pericolosi del papillomavirus, ma l'effetto che potrà avere sulla diffusione del cancro alla cervice è tutta un'altra storia. Insomma, ci vuole un atto di fede". L'atto di fede l'ha fatto la Fda dando il via libera al Gardasil, aggiungendo però che è necessario "seguire un sufficiente numero di bambine fra gli 11 i 12 anni" in un ampio studio postmarketing per "verificare ulteriormente l'innocuità del vaccino". Peccato che lo studio non sarà completato prima del 2009 e che quindi, nel frattempo, la Merck sperimenterà il vaccino a costo zero direttamente sulle pazienti che saranno costrette a vaccinarsi dalla normativa in via d'approvazione nei singoli Stati. Un'idea geniale per un farmaco che non guarisce - se mai si sostituisce ad altri strumenti di prevenzione meno costosi e, forse, più efficaci - ma che può portare nelle casse della compagnia qualcosa come 2 miliardi di dollari in tre anni.
I dubbi e le cautele dei pediatri americani non sembrano sfiorare il nostro paese, dove è stato lanciato un programma di vaccinazioni gratuite delle bambine sulla base del parere positivo espresso dal Consiglio superiore di sanità e dall'Agenzia italiana del farmaco, che si avvia a commercializzare il Gardasil dando la sua efficacia per acquisita. Il dibattito specialistico infuria su internet ma non tocca i media generali, se si fa eccezione per un articoletto, pubblicato in gennaio su Repubblica, del dottor Michele Grandolfo che lavora al Reparto Salute della donna e dell'età evolutiva nel Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell'Istituto Superiore di Sanità, ma che ha firmato a titolo personale. Grandolfo suggeriva prudenza per svariati motivi: prima di tutto l'efficacia dei vaccini è stata verificata considerando la riduzione dell'incidenza delle displasie gravi e non del tumore al collo dell'utero, per la qual cosa bisogna aspettare 30-40 anni. Dichiarare tranquillamente che i vaccini disponibili prevengono detto tumore è un'informazione ingannevole e le Autorità competenti avrebbero l'obbligo di intervenire a riguardo. E visto che i vaccini disponibili proteggono dall'infezione solo di alcuni ceppi di virus, sarebbe invece opportuno estendere e migliorare lo screening con il Pap test soprattutto in Italia, tenendo conto che in alcune zone, come il meridione, la copertura è ancora insufficiente. Oltretutto, scrive Grandolfo "il proseguimento potenziato dello screening (con il Pap Test) è necessario per tenere sotto controllo lo sviluppo tumorale sostenuto dai ceppi non contenuti nei vaccini attualmente disponibili" mentre non è ancora stato adeguatamente valutato il rischio che la vaccinazione operi una pressione selettiva, facendo fuori alcuni ceppi e lasciando spazio a quelli "cattivi". La domanda insomma è una sola: se con il vecchio ed economico Pap test si può ridurre l'incidenza del tumore al 90 % mentre con il nuovo vaccino forse (e non è ancora detto) si sconfiggono soltanto i ceppi responsabili del 70% dei tumori, perché abbandonare la sperimentata strada per quella nuova?
Sabina Morandi dal quotidiano Liberazione
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