>>Home > Patologie > Farmaci > Come ti muovi ti impasticco
Come ti muovi ti impasticco PDF Stampa E-mail
Sesso, internet, lavoro, gioco, shopping, ginnastica. Prendi un comportamento qualsiasi, definiscilo patologico e poi trovagli (e vendigli) una cura: è un'altra delle frontiere del biopotere postmoderno duttile e pervasivo.

Forse qualcuno avrà già sentito parlare del disease mongering. E' una strategia utilizzata dall'industria farmaceutica per incrementare gli utili attraverso una serie di specifiche azioni, ad esempio indirizzare l'attenzione clinica e di ricerca su patologie croniche e di forte diffusione (con buona pace delle persone affette da malattie rare il cui "poco mercato" non merita grandi investimenti), abbassando i livelli-soglia di rischio, ma alzando quelli di redditività di farmaci che non devono essere somministrati ai fini della guarigione, ma per mantenere gli assuntori "sotto cura e sotto controllo" praticamente per tutta la vita.
Ma non è sufficiente abbassare le soglie di rischio. Ecco che allora ciò che sino a qualche anno fa era considerato normale ora viene considerato patologico, e pertanto vengono individuate "nuove malattie". La lista è lunghissima, sino a contemplare la "sindrome delle gambe irrequiete", sindrome che necessita prima di essere "scoperta", quindi di essere combattuta tramite l'individuazione di un farmaco ad hoc ed infine, inevitabilmente, richiede di trovare "pazienti" affetti da tale sindrome. Non è un caso che gli investimenti in marketing da parte delle aziende farmaceutiche si rivelino di molto superiori a quelli in ricerca.

Ancora, desta una notevole impressione la recente notizia che un farmaco come il Prozac non risulterebbe efficace nei casi di depressione lieve, impressione che si accentua al sospetto che tale mancanza di efficacia possa derivare non tanto da un'azione farmacologicamente carente, quanto dalla scadenza del brevetto (con la conseguenza che le case farmaceutiche tenderebbero a svalutare il Prozac per poter poi lanciare sul mercato altri brevetti).
Fatto sta che leggendo come patologiche numerose manifestazioni della vita normale e facendo leva sulla paura della morte, si incentiva il continuo ricorso a strutture sanitarie e al sovratrattamento farmacologico di ogni sintomo da parte di un cittadino stretto fra il timore della malattia e l'aspettativa nel potere salvifico della medicina.
Di converso, anche comportamenti e scelte (o forse non scelte…) soggettive ben si prestano a suscitare un certo interesse da parte della medicina e delle aziende farmaceutiche: eccessi o inibizioni sul piano sessuale, nell'uso di internet, nel lavoro, nel gioco d'azzardo, nelle relazioni e negli affetti, negli acquisti ed anche nello sport diventano sempre più punto di osservazione, di studio, di interesse da parte della medicina, ed eccoli quindi inseriti a pieno diritto nelle "nuove patologie" o, nello specifico, nelle "nuove sindromi da addiction", sempre più consone ad inglobare momenti ed eccessi tipici della vita di ognuno di noi.
L'operazione è semplice. Il primo passo sta nel creare un allarme sociale (nuove malattie, nuove sindromi di cui ognuno potenzialmente è a rischio); in secondo luogo ci si appropria di questo campo (questi comportamenti sono individuati, spiegati e di dominio della medicina), in terzo luogo vengono catalogati (inserimento nei manuali diagnostici) e finalmente giunge la rassicurazione che sono in corso ricerche, sono o saranno a disposizione farmaci, linee guida.
Questo non significa che il problema del rischio, dei costi sociali, delle problematiche aperte da tali questioni non esistano. Anzi. Piuttosto si pone la questione se tali problemi siano di competenza della medicina o meno. Come nota infatti Eliot Freidson nel saggio La dominanza medica "la professione medica si arroga il diritto di decidere cosa sia la malattia e a che cosa sia collegata, nonostante la sua incapacità di trattarla efficacemente. Questo ci dimostra che l'acquisizione di importanza sociale di un valore come la salute va di pari passo con la nascita di un veicolo per questo valore, una categoria organizzata di professionisti che ne reclamano la giurisdizione. Una volta ottenuta ufficialmente tale giurisdizione, la professione è pronta a creare i propri concetti specializzati per definire che cosa sia la malattia. Benché la medicina non sia indipendente dalla società in cui opera, nel momento in cui diventa il veicolo di valori sociali, giunge ad assumere un ruolo fondamentale nella formazione e nella definizione dei significati sociali che tali valori contengono. Resta da vedere quale sia la portata di questo ruolo".


Non punire, ma sedurre

Quest'ultima notazione ci introduce all'interno di un più ampio piano di lettura del fenomeno, che tenta di dar conto della medicalizzazione della devianza come processo diffuso, nonché chiave di volta per comprendere l'affermazione di un certo potere sottile, discreto e pervasivo. È quello che ci rammenta Michel Foucault in Sorvegliare e punire evidenziando il fatto che proprio su strumenti come l'esame, su modalità operative quali la catalogazione, la classificazione, la documentazione e l'individualizzazione, si sia fondato il passaggio verso un certo modello di società del controllo e della disciplina. Questi elementi, che trovarono terreno di coltura proprio in ambito clinico (cioè in quei "laboratori" che sono gli ospedali del XVIII secolo), non limiteranno poi il proprio raggio d'azione al manicomio e all'ospedale, ma si riveleranno ben funzionali alla gestione ed organizzazione di altre comunità "necessarie" e totalizzanti, quali sicuramente la caserma, il carcere e per molti versi la fabbrica.
Da qui, dalle istituzioni totali, il sistema "medicalizzante" troverà poi progressiva diffusione nel resto della società, rendendo sistematiche le procedure di normalizzazione e controllo fino a farne la spina dorsale di un preciso modello di regolazione socioeconomico e politico o, per meglio dire, biopolitico.
Ma sarebbe ingenuo pensare oggi che la diffusione della medicalizzazione, anche di quella della devianza, sia rimasta ancorata ad un mero presupposto disciplinare ed organizzativo. Prova ne sia che se da un lato vi è ormai la stabile acquisizione che il processo di medicalizzazione collettiva della vita (ben prima che della devianza!) sia un processo necessario ed ineluttabile, in quanto rispondente ad esigenze di carattere medico-sociale (tutt'altro che scevre, come sopra rimarcato, da pressioni economiche), dall'altro i processi di individualizzazione che hanno avuto luogo in occidente negli ultimi 30-40 anni non hanno affatto sgretolato i dispositivi di controllo basati sulla medicalizzazione, piuttosto li hanno sottoposti ad una certa mutazione.
L'individuo tardo-moderno o post-moderno, differenziato, autonomizzato ed isolato, rappresenta difatti un "oggetto" di attenzione ancor più esposto alle manipolazioni di un potere mai così raffinato, in grado di esprimere controllo sociale non tanto per il diretto ricorso a disciplinarità e sanzioni, quanto attraverso la mirata stimolazione di desideri e la incessante proposizione di modelli, all'interno dei quali l'input alla
salute ed al benessere diviene generale, inevitabile e doveroso fondamento del principio di successo individuale.
A ciò si aggiunga che questa volontarietà alla base dell'attuale biopotere si raccorda perfettamente con la volontarietà dell'accesso a certi benefici o servizi erogati proprio in quegli ambiti bio-socio-tecnologici volti a regolare, organizzare e monitorare il comportamento umano.
È chiaro, quindi, come ciò che oggi si definisce come controllo non si focalizza su pratiche costrittive, né su espressioni e comportamenti oppressivi, ma nell'organizzazione e nella contestualizzazione di ciò che è spesso progettato o addirittura desiderato da un libero soggetto: nell'indicargli modelli di vita, di consumo, di prestazione. Salvo poi ritenerlo malato se "non riesce a controllarsi" nei consumi e negli eccessi. Salvo poi stigmatizzarlo se "eccede". Salvo poi colpevolizzarlo se non ricorre alle cure per il suo disturbo.
Il meccanismo opera in particolare sul piano delle sostanze o dei comportamenti "non illegali", dove il consumo è libero, non ostacolato o spesso addirittura costruito attorno a comportamenti socialmente incentivati, senza che tuttavia vengano minimamente messi in discussione i modelli culturali e l'organizzazione sociale ed economica che gravitano proprio attorno a questi consumi.
Ed è a questo punto che intervengono i "saperi esperti" i quali, come ha evidenziato sempre Foucault (vedi Tecnologie del sé), divengono di centrale importanza nei processi di normalizzazione che partono dalla individuazione delle possibili buone condizioni di salute e dalla definizione delle corrette regole di comportamento a cui i soggetti sono chiamati a conformarsi.
Non si tratta più quindi di "sorvegliare e punire" (apparato che richiama paranoici modelli ottocenteschi o modelli inapplicabili) ma di prevenire e curare, preferibilmente all'interno di un approccio riduzionista che si declina in prevalenza su un versante biologico-individuale, riconducendo cioè l'essere umano ad una "semplice questione somatica": ecco infatti che quotidianamente sui giornali leggiamo come sia stato scoperto in un qualche laboratorio il gene, il meccanismo biologico, il tratto somatico di tutto ciò che ci dà fastidio negli altri o che vogliamo giustificare in noi (la violenza, l'aggressività, la tossicodipendenza), o che vogliamo cambiare o di cui ci vergogniamo. Ed ecco allora la pillola - già anticipata e pubblicizzata - che risolverà il problema, e che rappresenta anche la chiusura di un cerchio già delineato.

Dal peccato alla malattia

"Una volta rimosse etichette come crimine e peccato, ciò che viene fatto al deviante è per il suo bene, per aiutarlo invece che punirlo, anche se il trattamento può, in alcune circostanze, rappresentare una pratica restrittiva.
Le opinioni del deviante non vengono tenute in considerazione perché egli è considerato un profano inesperto, privo della conoscenza specializzata o del distacco che gli darebbero il diritto di fare sentire la sua voce" (la descrizione è ancora di Freidson).
Il progressivo slittamento di molti comportamenti considerati devianti, incomprensibili, disturbanti dal dominio della Chiesa (è peccato), a quello del Diritto (è reato), per giungere a quello della Medicina (è malattia), comporta tuttavia i rischi di un controllo più strisciante, più subdolo, la cui sostanziale accettazione sociale garantisce spazi di manovra e di legittimazione in territori prima stranieri. Se ieri un uomo doveva essere pio e timorato di Dio, e quindi rispettoso delle leggi e delle convenzioni, oggi l'ideale è quello di un uomo "sano" e la salute (o la mancanza di essa) diventa il luogo ove scoprire e svelare il peccato, la colpa o i propri limiti ed inadeguatezze: si pensi ad esempio al "caso Viagra".
Le "nuove sindromi" sono costruite e definite da una algebrica sommatoria di più criteri comportamentali che non si interrogano circa la comprensione dei meccanismi, dei significati, dei vissuti, delle evoluzioni e dei bisogni che tali "dipendenze" sembrano allo stesso tempo circolarmente soddisfare e creare. I problemi e gli ostacoli che le persone incontrano diventano, quindi, diagnosi e il processo prevede la trasformazione e l'accettazione del passaggio da trasgressore a malato.

Oltre la cura: la statistica "preventiva"

Ma lo scenario si va frastagliando, e inizia a sorgere più di un dubbio circa il fatto che la medicalizzazione della società in generale, e la medicalizzazione della devianza in particolare, governino da sole gli attuali processi di controllo sociale. Forse non è un caso che le tendenze nel crime control e nel contrasto alla devianza degli ultimi trenta anni abbiano via via spostato l'attenzione dalle caratteristiche cliniche e sociali dell'autore del delitto alle concrete modalità di commissione dei reati ed alle situazioni ed al contesto fisico ove il reato viene perpetrato.
Così come non è casuale l'emersione di un approccio preventivo cosiddetto attuariale, volto ad operare su una base quantitativa e probabilistica e tendente al controllo tramite una valutazione anticipata del rischio, rinvenibile sia nelle specifiche caratteristiche individuali del singolo soggetto, quanto in quelle generali della classe o del gruppo di cui fa parte, secondo un criterio preventivo, astratto e statistico che non ha più alcun bisogno di quella finalità trattamentale o risocializzante che accompagna, in buona parte, proprio certi processi di medicalizzazione.
Sembrerebbe pertanto configurarsi uno scenario tardo-moderno nel quale il biopotere sa muoversi ed agire in modo fluido ed adattabile, utilizzando strumenti diversi in base alle diverse caratteristiche dei soggetti da controllare: su alcuni di essi può essere più efficace medicalizzare e "trattare", oppure indurre e stimolare; su altri rimane preferibile valutare il rischio ed escludere.

Un saggio dalla rivista online di critica sociale della Fondazione Di Liegro (www.ilsemesottolaneve.org)